la soglia si È schiusa

l’ombra chiama

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Paragrafetto FG che ti parla del progetto e ti invita con parole gargliarde e incoraggianti a saperne di più!

Guarda quanta bella roba! Vieni al live!

Spieghiamo pure la schedule del live all’anno più cose varie!

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  • Io Napoli la odio

    Il caldo afoso mi soffoca, il traffico mi fa rimbombare nella testa il rumore del clacson per ore.

    Fatico a muovermi tra i cumuli di immondizia, le auto sventrate lasciate al ciglio delle strade, dimenticate per generazioni finchè un’amministrazione comunale finalmente si ricorda di rimuovere quei relitti ossidati. Numeri di targa che sono epitaffi.

    Perché devo cercare la bellezza e la pace come fossi un geologo che cerca il petrolio.

    Annaspando. Era difficile nella vita di prima, ora è praticamente impossibile. E la odio.


    “Hai finito di lagnarti?” mi latra l’altro girandosi verso di me appena un istante. 

    Stavo parlando ad alta voce senza accorgermene? Ecco, odio anche questo genere di cose. 

    Il fissare le configurazioni con cui i granelli di zucchero precipitano dalla bustina aperta sovrappensiero, l’alchimia di luci intermittenti delle vetrine, le parole dei passanti che si fanno prima rumore bianco, poi gracchiare di corvi. Per non parlare della mia voce, non la riconosco più quando indosso la Maschera, sembra olio che mi cola dalla lingua. 

    Dolce e unta, vorrei raccoglierla con le mani e rificcarmela in gola. 


    Un altro grugnito di disappunto mi ricorda dell’esistenza del mio anfitrione: Maloservizio si chiama, un Bestiale che deve aver perduto l’educazione dall’altra parte insieme a tutto il resto. Non capisco di che si lamenti, lascia una tale scia di peli che è praticamente impossibile non stare al passo. Chissà se sente Napoli come me. Oppure magari vede tutto in bianco e nero, come i gatti randagi quando escono la notte per cacciare… La vista alterata me la accollerei, non sarebbe stato un grande cambiamento, gli occhiali li portavo già e alla fine sarebbe un po’ come indossare delle lenti polarizzate tutta la vita… No,no, sforzati di tenere i pensieri nella testa, idiota, non trasformarli in olio che cola via. 

    Non sto simpatica a Maloservizio, vuole portarmi al Fiume il prima possibile.

    Il nostro Patto è semplice, una persona per una persona, e capisco voglia archiviarlo il prima possibile per passare al prossimo. Devo abituarmi a questa cosa dei Patti, al sentire i sussurri di ogni radiatore, turbina e nastro trasportatore che costeggiamo nel nostro muoverci nelle ombre. Devo abituarmi a camminare fuori dal radar delle persone normali, camminare senza incrociare il loro sguardo, senza farli sforzare troppo a capire a cosa hanno dato un’impercettibile spallata. Devo abituarmi ad un sacco di cose. 

    Ecco perchè andiamo al Fiume. Da sola non ce la farò mai.


    “Stiamo girando per questo cazzo di aeroporto da ore, mi fa male la testa con tutti questi macchinari.” mi lamento come un bambino viziato. Anche Lui mi trattava come un bambino.

    Ogni giorno un giocattolo diverso. Ogni giorno un nuovo stimolo, una piccola sfida. Secondo me gli stavo più simpatico di altri, Lui mi confessava che…

    Uno schiaffo. Pesante come una martellata. Cado. Un paio di operatori si girano in mia direzione, cercando una valigia da imbarco rovinata al suolo. Un passeggero. 

    Non trovano niente.

    “Non tornare lì.” C’è un accenno di apprensione sul suo volto da lupo. Una luce preoccupata. Il dolore arriva solo adesso, ma segue sempre la curiosità. Ha fiutato che stessi tornando in Arcadia?

    “Comunque siamo arrivati, è questo qua.” Tira su col naso un paio di volte.



    Mi tira su di peso e ci lanciamo sotto l’arcata di una scala antincendio. Quale? 


    Non saprei tornare alle Partenze nemmeno provandoci. Ma è tardi per quello.

    Sento l’aria incresparsi appena un istante, una scarica di elettricità fa scomparire la sensazione di dolore alla mascella. La chiamiamo Wyrd. E’ il nostro ossigeno, la nostra benzina ed il nostro arsenico. E scompariamo anche noi.

    Un battito e siamo nella Siepe. Finalmente respiro. Maloservizio mi lascia andare, sa che qui posso stare meglio. Come tutti noi.

    Capodichino è sparito, sostituito da un labirinto di vecchi edifici in rovina, il rosso pompeiano delle mura fagocitato dall’edera viola e verde acido, il tufo perforato dalle Spine

    Siamo immersi in un piccolo rigagnolo che si perde seguendo il pendio della collina. L’acqua è fredda e carbonata, sento le mie ginocchia bruciare. Odio Napoli.


    “Siete in ritardo.” La voce del Padrone di Casa è il rantolo di un moribondo. Mi ricorda la voce di mio nonno i suoi ultimi giorni in Clinica. Ero bambina, avevo 8, forse 10 anni…?


    “Ti ho chiesto come ti chiami.” Un altro rantolo. Cazzo, ho perso ancora qualche pezzo?
    Il Padrone di Casa è una mummia come quelle che vedi al Museo Archeologico, ma senza vistose panoplie funebri. Solo uno straccio scuro indossato come una tunica e un paio di grosse monete a coprirgli le orbite. Sento che sia molto più vecchio di me e Maloservizio, ma non mi fa paura come dovrebbe. Anche se una fottuta mummia parla e si muove a pochi metri da me.


    Non sto riuscendo a seguire la conversazione tra la mummia e Maloservizio. Vedo un paio di strette di mano, una leggera scarica di Wyrd profumare di ozono l’aria stantia della Siepe. Parlano ma non li ascolto, sono focalizzata a identificare la provenienza delle monete d’oro sul volto della mummia. Leggo qualche lettera greca, sono… dracme?

    Credo di aver aperto bocca un paio di volte, ma era una partizione diversa. Una perdita d’olio dai motori. Maloservizio intanto mi ha spinto fuori dall’acqua.


    “Non preoccuparti Nice, ci farai l’abitudine” la Mummia estrae dalla tunica una ciotola di argilla e raccoglie l’acqua dal rigagnolo. 

    “Il delirio è stato un compagno dei primi cicli di tutti quanti noi. E abbiamo tutti trovato qualcuno che ci porgesse la mano nel momento del bisogno...”


    Caronte mi porge la ciotola. Le acque del Sebeto, il fiume che vide la nascita di Partenope e, interrato dalla cupidigia dei Mortali, fu reclamato dalla Siepe. Ed ora è di noi Cangianti.

    La mummia si è presentata con il suo Contronome e mi ha spiegato tutto nel tempo in cui ho realizzato che le gambe non mi bruciassero più.


    “...Ovviamente dietro la presentazione di un pegno.” Il suo rantolo diventa stucchevole. Come il nonno quando cercava di tirarmi su il morale quando lo vedevo con tutti quegli aghi intorno alle braccia, indorava una pillola che sapeva di catrame. Tanto oggi quanto allora è completamente inutile, so già cosa va fatto.


    Una leggera fluttuazione di Wyrd ed il mio pollice diventa un piccolo seghetto. La premo con forza nel palmo, e gocce di liquido nero cadono nella ciotola, vincolando il mio sangue alle acque del Sebeto. Per sempre. Tutto per ricevere in cambio una bussola per questo mondo di meravigliosa follia. Perchè Napoli la odio ma non posso proprio permettermi di tornare dall’altra parte. Da Lui, che mi attende a braccia aperte e mi sussurra nei sogni.


    Caronte sorride dietro i suoi stracci logori. L’Obolo è stato versato.

    Lo scroscio dell’acqua riempie le mie orecchie, sento il metallo del mio corpo farsi leggero.

    Inizia il mio viaggio.

  • TRIGGER WARNING - SUICIDIO, VIOLENZA INFANTILE


    È stata colpa mia.

    Dieci e mezza di sera, la banchina della metro deserta. 

    Se avessi saputo che sarebbe stato possibile provare nostalgia per il casino di Piazza Dante sarei risalita a prendere una boccata d’aria.

    Dopotutto, non scendevo alla banchina per prendere davvero il treno da un po’. Se avessi capito prima cosa stavo fremendo di incontrare, avrei evitato la metro per tutta la vita.
    Se ne avessi parlato con qualcuno probabilmente mi avrebbero rinchiusa, salvandomi. Ma avevo tredici anni, ero stupida. E sola.

    Ricordo che mi sedetti sulla panchina fredda con il panico che montava, dopo aver centellinato la parete della banchina da un lato all’altro, una mattonella alla volta. Il poster non c’era, qualcuno l’aveva strappato, pensai. Piccola stupida. Eppure c’era sempre stato, con il suo volto famoso di cantante K-Pop e le parole che cambiavano solo per me, parlandomi, confortandomi, amandomi. 

    Stavolta erano solo date di spettacoli, inutili pubblicità, numeri da strappare: il familiare muschio sulla corteccia della stazione, il naturale e continuo ricambio di locandine e avvisi, l’effetto memoria di una città gigantesca, il segno lasciato dalla vita nelle sue budella di pilastri, rotaie e filtri per l’aria. C’era tutto, meno che Lui, che poteva sembrare a tutti un poster come altri del tour di un cantante, ma che da sei mesi era il motivo per cui andavo avanti.

    La prima volta che mi aveva parlato i miei occhi erano prismi di lacrime, pensai di aver visto male. Mi schiarii la vista con la manica della felpa oversize, le persone mi passavano dietro e voci registrate lanciavano avvisi e su quel foglio già vecchio, sotto la foto dello splendido ragazzo coreano, con la pelle liscissima ed il sorriso radioso c’era scritto il mio nome.

    ‘LUCIA’

    Sì?  Lo pensai solamente, ma bastò. Davanti ai miei occhi le lettere viola si dissolsero, riassorbite dal nero stinto dello sfondo. 

    ‘PERCHE’ PIANGI?’

    La mia mente ripartì verso l’umiliazione, lo scherzo, le ragazze che ridevano, il volto che mi si infiammava di vergogna, la corsa in bagno. Probabilmente arrossii di nuovo, di certo gli occhi mi si inumidirono ancora. Non ricordo se in quel momento gli allarmi della mia mente razionale stessero suonando, se a breve avrei finito per girarmi ed andare via, so che non lo feci fin quando Lui scrisse ancora.

    ‘È TERRIBILE QUELLO CHE TI HANNO FATTO. MA NON IMPORTA DAVVERO, NESSUNO DI LORO IMPORTA. TU, SEI TU CHE IMPORTI. E LORO NON SANNO CHI SEI DAVVERO.’

    Mi si sciolse un nodo nel cuore, sì, per così poco. Il fatto è che nessuno me lo aveva mai detto, che importavo. Non ne aveva il tempo mio padre con i suoi turni in fabbrica, forse mia madre semplicemente non lo riteneva necessario, nessuno nella mia vita a farmi risuonare nella testa una frase così accogliente, semplicemente un abbraccio.

    È stata colpa mia?

    Mi resi conto in poche visite che solo io potevo vedere le scritte che cambiavano, che solo io potevo parlare con Lui nella mia testa. Questa consapevolezza me lo rendeva ancora più prezioso. Perché solo io potevo dirgli ogni cosa nel fracasso di quel fluire di persone e treni, e leggere la sua risposta immaginando la sua voce. Perché Lui aveva scelto me, quella che nessuno sceglieva mai.

    Non so quanto tempo passassi a parlargli ogni volta. So che gli raccontai ogni cosa di me, ogni dolore ed ogni paura. So che mi confortò, mi diede consigli e mi sostenne. Consumai le suole delle scarpe sulle scale che scendevano a quella banchina. So che pensai a Lui come la ‘persona’ più importante della mia vita. So che mi disse che mi amava. Sei mesi di scritte che apparivano solo per me.

    E quella sera l’idea di perdere tutto questo mi rese folle di paura. Quando passò il treno davanti alla banchina vuota pensai quasi di andare via. Per sempre.
    Poi un foglio scuro si sollevò da terra per il vortice e si librò in aria. Non attesi di capire se era quello che cercavo, corsi e basta. Quella banchina senza di Lui era il luogo più terrificante del mondo. Piccola stupida. Le mie scarpe da ginnastica erano schiaffi sul pavimento lercio mentre mi precipitavo verso quel pezzo di carta che faceva la sua danza sulla corrente d’aria. Mi mostrava da lontano ora il fronte, ora il retro, una foto, il font elegante, viola su nero, un sorriso raggiante.  Corsi da Lui. Ogni tanto ripenso ancora a quel momento preciso, alla forza di volontà in quei piedi che mi lanciarono all’inseguimento. Avrei fatto di tutto per non perderlo, lo avrei seguito per ogni galleria della maledetta metropolitana, non volevo perderlo e scelsi di andare, totalmente inconsapevole di dove mi sarei fermata.

     No, non lo è stata.

    Lui mi aveva scelto, sì, ma perchè ero sola. Mi scelse perché ero spaventata, ferita e persa. Mi trovò tra le pieghe in cui colano così tante anime tutti i giorni e mi scelse, perché ero una preda facile, di cui nemmeno la madre si interessava. Mi scelse perché per sei mesi una tredicenne era stata a fissare un muro vuoto pomeriggi interi e nessuno dei milioni di passanti aveva mai pensato di fermarsi e chiedere se era tutto a posto. Mi scelse perché anche io avevo bisogno di amore e cura, ma ero stata abbandonata dal mondo.

    Il foglio di carta continuò a volteggiare anche se il treno era ormai lontano, superò la linea gialla e si librò sui binari, quasi ammiccando all’oscurità della galleria, che all’improvviso, senza alcuna spiegazione, lo risucchiò. Vorrei poter dire che esitai, che rallentai al pensiero di dover scendere tra i binari della metro e seguirlo, ma non lo feci. Saltai giù dalla banchina e continuai a correre, senza soluzione di continuità, dritta verso la galleria. Lucia si gettò nel buio, Lucia venne risucchiata riemergendo in un altro buio, in un altro luogo. Lucia morì quella notte.

    ‘AMORE MIO, FINALMENTE SEI VENUTA DA ME'

    Non era affatto la voce che mi ero immaginata.

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